Il ghost writer deve avere alcune doti imprescindibili: la capacità di ascoltare, prima di tutto, poi la destrezza di costruirsi un vocabolario bello denso, infine l’abilità di non lasciare traccia.
Il mestiere di ghost writer
Ho deciso di fare la ghost writer perché ho talmente tante parole dentro di me da non sapere cosa farne. Così ho pensato di metterle a disposizione di altre persone, quelle che:
- “vorrei scrivere un romanzo, ma non so da che parte cominciare”
- “ho in mente una storia, purtroppo però non ho tempo per scriverla”
- “sono un vulcano di idee, ma preferirei tirare a lucido le piastrelle del bagno piuttosto che stare ore davanti allo schermo di un computer in attesa dell’ispirazione”
- “per essere giugno, c’è troppo caldo”
- “e se poi quello che scrivo non piace a nessuno?”
- “e se poi quello che scrivo non interessa a nessuno?”
- “senza considerare che in italiano sono sempre stato una schiappa”
- “la prof. vergava con la biro rossa i miei temi”
- “la mia vita è più di un romanzo: forse dovrei accantonare l’idea del libro per farne un film”
- “ma si guadagnano dei soldi?”
E via dicendo. In effetti sì, fantasia ce n’è tanta, manca solo la concretezza che è tipica di chi fa il mio mestiere, appunto.
Che poi, a mio modesto parere, è quasi sempre un problema di autostima: se i grandi romanzieri si fossero fatti ostacolare dalle biro rosse delle loro insegnanti, temo che a quest’ora gli scaffali delle nostre librerie o biblioteche sarebbero semi-vuoti.
In ogni caso, il mio compito non è risolvere tribolazioni interiori o atteggiamenti post-traumatici. Ecco quindi la domanda cruciale: qual è il compito di un ghost writer?
Stessa identica domanda la ripeterò qui sotto, in bold, a vantaggio di SEO.
Qual è il compito di un ghost writer?
Il compito di un ghost writer è, prima di tutto, ascoltare.
Prima di ideare una trama, prima di imbastire una scaletta, prima di riflettere su personaggi e ambientazioni, prima di iniziare a scrivere un libro, c’è l’ascolto.
Per esperienza, posso dire che si può scrivere qualsiasi cosa (come genere letterario, intendo), ma non si può scrivere per qualsiasi committente.
Tanto per essere chiari, se vengo contattata da una persona che non mi piace, declino l’invito. Me la tiro? Può darsi, ma non è questo il punto.
Il punto è che, per mesi, lavorerò per quella persona (il/la committente), ascolterò le sue parole, i suoi racconti, i suoi perché, turbamenti inclusi. Prenderò appunti e poi scriverò avendo nella mente le sue parole, i suoi racconti, i suoi perché, turbamenti inclusi. Perfino la sua cadenza regionale diventerà mia.
Per cui, se quel/quella committente mi stesse su, per me sarebbe un inferno. E il manoscritto, alla fine, sarebbe illeggibile. Quindi lavoro solo con chi mi piace, parola di lupetto.
Chi mi piace? Non lo so, è una cosa a pelle. Ma chi non mi piace faccio meno fatica a descriverlo:
l’arrogante, il presuntuoso, quello che mi dice – e mi è capitato di recente – “io ce l’ho con mezzo mondo, come dirlo ci pensi poi te”. Oppure no, non ci penso affatto.
Così, per tutte le persone per le quali ho scritto qualcosa, da un romanzo a un’autobiografia, da un articolo per il blog a un messaggio pubblicitario, ho provato da subito una certa empatia, che si è poi trasformata in rispetto, aiuto, sostegno, condivisione. Screzi sì, possono capitare e con alcuni committenti sono capitati, ma poi li abbiamo superati, a volte mollando la presa (quasi sempre loro), a volte ridendoci sopra.
Per ragioni contrattuali, non farò nomi, ma è certo che ho massima stima dei miei committenti e che per loro ho sempre scritto con reale intento e trasporto.
Come ci sono riuscita? Ascoltandoli.
E poi cercando di capirli, di interpretare il loro lessico, di entrare nel loro vissuto, di costruire personaggi che parlassero come loro o di progettare capitoli che contenessero il loro sapere, senza per questo appesantire la lettura.
Ascoltando, capisco, seppur in parte, con chi ho a che fare e quale tipologia di libro possa fare per loro: un romanzo d’avventura, un manuale per risolvere problemi professionali, un’autobiografia, e via dicendo.
Solo a questo punto, solo dopo aver cucito il progetto editoriale addosso al mio cliente – attività che si chiama book-design, per la quale sono affiancata da ottime professioniste – solo allora, inizio a scrivere.
Scrivere senza lasciare traccia, come se fossi un fantasma
Dopo aver deciso come impostare il libro, inizia il periodo delle call. Ci si vede (o ci si sente e basta) attraverso lo schermo di un computer. Il/la committente parla, io prendo appunti. Quando ho appunti a sufficienza, scrivo.
Quanti appunti devo avere per iniziare a scrivere? Dipende.
Quante call servono perché io abbia appunti a sufficienza? Dipende.
Quanto impiegherò a scrivere? Dipende.
E via dicendo. Ogni progetto è a sé, quindi non è possibile ipotizzare tempistiche, quantità, misure standard. Magari fare una media? Neanche.
Non è questione né di tempo né di fogli pieni di inchiostro.
È questione di anima.
(Lo ripeto qui sotto, nel solito bold, per la solita SEO).
È questione di anima. O meglio, di anime
Il ghost writer incontra l’anima di un/una committente. Se non la incontra, se non la sfiora, se non la sente, il ghost writing non s’ha da fare. Il/la committente incontra l’anima del suo / della sua ghost writer: se non c’è feeling, il consiglio è di proseguire la ricerca su Google.
Se questo miracoloso incontro d’anime c’è, il tempo sarà relativo, così come l’inchiostro e il ticchettio sulla tastiera.
A nessuna delle due parti coinvolte peserà “incontrarsi”, raccontarsi, svelarsi (lo fa anche il ghost writer, almeno in parte).
E il lavoro verrà da sé, ovvero il manoscritto prenderà forma come la più naturale delle creature.
In attesa di diventare libro, volendo.